L’adolescenza è una fase di sviluppo caratterizzata da profondi cambiamenti sul piano fisico, biologico e sociale, che possono creare un senso di angoscia e confusione.
Abbandonare la condizione infantile per affrontare nuove sfide espone l’adolescente a forti emozioni e conflitti, che, se non è possibile elaborare attraverso la riflessione o il dialogo, vengono espressi sotto forma di agiti.
Gli agiti sono comportamenti impulsivi, che nascono quando l’emozione vissuta è talmente intensa e intollerabile da dover essere necessariamente scaricata all’esterno.
Talvolta, questi comportamenti assumono forme violente, come aggressioni o risse, che, secondo lo psicoanalista Donald Winnicott (1986), hanno spesso lo scopo, anche inconsapevole, di attirare l’attenzione di un mondo adulto percepito come distante e disattento. Un mondo che, confondendo la libertà con l’assenza, fallisce nel contenere e sostenere l’adolescente, lasciandolo solo, privo di punti di riferimento affettivi e valoriali, per affrontare le sfide della crescita. Quando questa assenza, reale o percepita, si protrae, la violenza perde la sua funzione comunicativa e diventa espressione di smarrimento e disintegrazione dell’esperienza interiore.
L’adolescente violento è, in realtà, un giovane privato della possibilità di tollerare l’intensità delle emozioni, di gestire la frustrazione e di dare significato ai propri vissuti interiori. L’aggressività diventa così l’unico linguaggio possibile per esprimere il caos emotivo che lo attraversa. Dietro alla sua maschera di durezza e invulnerabilità, si nasconde un Sé fragile, che trasforma il dolore in rabbia e la paura in aggressione.
La fragilità tipica dell’adolescenza, unita alla mancanza di punti di riferimento adulti, possono spingere i giovani a ricercare sostegno e contenimento in gruppi di coetanei antisociali. In questi contesti, l’identificazione con un leader idealizzato li fa sentire forti e invincibili, mentre il dolore e le paure non riconosciute vengono proiettati su un nemico esterno, evitando così il confronto con le proprie vulnerabilità.
Le radici della violenza
Se l’agito violento è il risultato di emozioni e impulsi che non trovano possibilità di essere contenuti e regolati, è importante risalire ai momenti in cui si costruiscono proprio queste capacità.
Tale processo ha origine nei primi anni di vita, quando il bambino è immerso nella relazione con i genitori. In questo legame si sviluppa un dialogo fatto di contatti, sguardi e parole: una vera e propria danza (Stern, 1985), attraverso la quale il bambino impara a riconoscere e regolare le proprie emozioni e in cui la sua soggettività prende forma.
Il ruolo del genitore è fondamentale: offrire un contenitore sicuro, in cui il bambino possa dare un significato alle sue emozioni, nuove e indecifrabili, aiutandolo a comprenderle e gestirle.
Se questo processo fallisce e il bambino non trova un supporto adeguato, può sentirsi sopraffatto da emozioni intense e spaventose, fino a sperimentare un vero e proprio “terrore senza nome” (Bion, 1984).
Questo accade perché l’intensità di emozioni, come la rabbia, crea un livello molto elevato di eccitazione, difficile da gestire in solitudine; un genitore attento, capace di accogliere e contenere questi stati emotivi, aiuta il bambino a riconoscerli senza sentirsi travolto, evitando la necessità di esternarli con dei comportamenti disadattivi.
Quando l’ambiente di crescita è incapace di fornire contenimento e, al contrario, espone ripetutamente il bambino a esperienze di trascuratezza o abuso emotivo, i danni sono profondi e duraturi. Uno studio di Lyons-Ruth (2012) mostra come i fallimenti nella relazione genitore-bambino rappresentano un fattore di rischio per lo sviluppo di quadri psicopatologici e comportamenti violenti.
Le principali distorsioni nel dialogo affettivo, individuate da Lyons-Ruth, includono:
• Errori affettivi: il genitore manda messaggi contraddittori al bambino o risponde in modo inadeguato alle sue richieste, generando grande confusione.
• Disorientamento: il genitore appare spaventato o confuso di fronte al bambino, trasmettendo un senso di insicurezza e imprevedibilità.
• Comportamenti negativi e intrusivi: il genitore fa uso di parole o azioni aggressive e crea un ambiente minaccioso, in cui il bambino si sente impotente e in pericolo
• Confusione di ruoli: il bambino viene adultizzato o sessualizzato, esposto a dinamiche relazionali inappropriate.
• Evitamento: il genitore si distanzia fisicamente e/o verbalmente dal bambino, lasciandolo solo nella gestione delle proprie emozioni.
L’esposizione ripetuta a questo tipo di esperienze genera un’angoscia profonda che non può essere elaborata, e diventa un “terrore senza nome”.
Secondo Selma Fraiberg (1975), già a partire dai 12 mesi, i bambini cresciuti in ambienti incoerenti e minacciosi possono sviluppare risposte aggressive (fighting) nei confronti dei genitori, proprio nel tentativo di contrastare questo profondo senso di impotenza e paura.
Il contributo dello psicologo Fonagy (2002) ha ampliato questa prospettiva, mostrando come, quando un bambino si sente costantemente sopraffatto, sviluppa nel tempo una percezione distorta delle intenzioni altrui, interpretando i comportamenti degli altri come minacciosi anche quando non lo sono.
Questo conduce a reazioni impulsive e aggressive, nel tentativo di mantenere il controllo su una realtà sentita come pericolosa.
Se questo schema si ripete nel tempo, la violenza smette di essere solo una difesa e diventa una parte stabile dell'identità, influenzando il modo di relazionarsi con gli altri.
Fonagy descrive questo processo come un circolo vizioso dell'aggressività, che si sviluppa nei seguenti passaggi:
1. Mancata comprensione e rispecchiamento emotivo da parte del genitore.
2. Uso dell’aggressività come difesa dalle emozioni intollerabili.
3. L’aggressività diventa parte dell’identità del bambino.
4. Difficoltà nel riconoscere le proprie emozioni e quelle degli altri.
5. Percezione degli altri come minacciosi.
6. Perdita di sensibilità emotiva e di empatia.
7. Aumento dell’aggressività nelle relazioni interpersonali.
La violenza, allora, diventa una caratteristica strutturale del bambino e poi dell’adolescente, con gravi ripercussioni relazionali che si protraggono nel tempo.
Giocare per crescere: il ruolo del padre nella regolazione emotiva
Spezzare il circolo vizioso dell’aggressività richiede la presenza di un ambiente di crescita capace di offrire contenimento e strumenti adeguati per la regolazione emotiva. Uno dei contesti in cui il bambino può apprendere strategie sane per gestire e modulare le proprie emozioni è il gioco.
In particolare, esiste un tipo di gioco fisico, molto comune soprattutto tra padre e bambino, chiamato Rough-and-Tumble Play (RTP), ovvero “gioco di lotta turbolenta”, caratterizzato da movimenti vigorosi, combattimenti fittizi, inseguimenti e altre attività energiche dall’aspetto aggressivo, trasformate in un gioco divertente (Paquette, 2004).
Attraverso il contatto fisico e l’intensità dei “combattimenti”, il padre genera nel bambino una forte attivazione emotiva, che deve, però, restare contenuta entro chiari limiti definiti dal genitore, così che il bambino impari a regolare livelli di eccitazione molto elevati.
Ad esempio, durante un finto combattimento, il padre modifica intenzionalmente la velocità e la forza dei movimenti, permettendo così al bambino di sperimentare situazioni diverse e sfidanti, senza sentirsi sopraffatto. Il bambino comincia ad individuare i segnali di eccesso nel proprio comportamento e in quello dell’altro, e a riconoscere e rispettare il limite condiviso.
Si riscontra un picco nel gioco della lotta turbolenta tra i 2 e i 5 anni, un’età in cui il bambino comincia ad aprirsi al mondo esterno e a ricercare maggiore autonomia; di conseguenza, la capacità dei genitori di bilanciare stimolazione, controllo e disciplina diventa essenziale per garantirne la sicurezza e facilitarne l’obbedienza.
Situazioni di gioco come l’RTP hanno un impatto significativo sulla regolazione dell’aggressività (Flanders, 2009), e facilitano l’apprendimento di strategie assertive per affrontare i conflitti, senza ricorrere alla violenza.
Il gioco rappresenta, dunque, un contesto ideale, in cui la figura paterna può offrire il contenimento necessario all’energia e all’impulsività del bambino, riducendo il rischio di disturbi del comportamento.
È importante allora promuovere programmi rivolti alla genitorialità, mirati a incoraggiare il coinvolgimento del padre nel gioco fisico, rafforzandone il ruolo nella dinamica familiare.
Un’assenza senza limiti
Attraverso esperienze come il gioco di lotta turbolenta (RTP), il bambino apprende che l’energia e l’eccitazione possono essere gestite all’interno di confini sicuri, grazie alla guida dell’adulto. Questa capacità di autoregolazione, sviluppata nelle prime fasi della vita, diventa una risorsa centrale anche nell’adolescenza, quando l’individuo deve confrontarsi con emozioni intense e con la necessità di dare significato ai propri impulsi.
Se dietro alla violenza si nasconde un’assenza, allora è fondamentale ribadire l’importanza del ruolo degli adulti e della loro funzione di base sicura, da cui il ragazzo può allontanarsi e a cui sa di poter fare ritorno: una presenza che direziona e stabilisce dei limiti.
Il limite, se accompagnato da un’adeguata sensibilità e attenzione ai bisogni dell’adolescente, non è un ostacolo, bensì uno strumento prezioso ed essenziale per favorire la costruzione dell’identità, permettendo ai ragazzi di esplorare, sentirsi sicuri e sviluppare una buona tolleranza alla frustrazione.
L’adolescente ha bisogno del limite, per metterlo in discussione e comprendere fin dove può spingersi: è un punto fermo contro cui misurarsi, ed è il segnale della presenza dell’adulto.
È la prova che il mondo adulto sa come sostenere e accompagnare l’adolescente, come guidarlo senza privarlo della propria spinta esplorativa e come proteggerlo dall’incertezza, costruendo, passo dopo passo, la propria autonomia.
di Giorgia De Santis
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Bibliografia
Bion, W. R. (1962). Apprendere dall'esperienza. Roma: Armando Editore.
Carbone, P., & Cimino, R. (2017). Adolescenze. Itinerari psicoanalitici. Borla.
Flanders, J. L. (2009). Parenting and child externalizing behaviors: Are the associations specific or diffuse? Journal of Family Psychology, 23(5), 848–860.
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Fraiberg, S. (1975). The magic years: Understanding and handling the problems of early childhood. Charles Scribner's Sons.
Lyons-Ruth, K. (2012). Dissociation and the parent–infant dialogue: A longitudinal perspective from attachment research. In J. F. Ford & C. A. Courtois (Eds.), Treating complex traumatic stress disorders in children and adolescents: Scientific foundations and therapeutic models (pp. 155–172). Guilford Press.
Paquette, D. (2004). Theorizing the father-child relationship: Mechanisms and developmental outcomes. Human Development, 47(4), 193–219.
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Tambelli, R. (2017). Manuale di psicopatologia dell’infanzia. Il Mulino.
Winnicott, D. W. (1986). Il bambino deprivato. Raffaello Cortina Editore.